Sine Die: ritratti e storie di care leavers in affidamento fino alla maggiore età

Sine Die: ritratti e storie di care leavers in affidamento fino alla maggiore età

Ad oggi sono quasi quindicimila i minori che vivono in affidamento familiare – con singoli, famiglie o parenti. L’affidamento è una misura di tutela decretata da un giudice in caso sia necessario allontanare temporaneamente un minore dalla sua famiglia d’origine. Il fine dell’affidamento è quello di creare, attraverso un lavoro di supporto alla famiglia d’origine, i presupposti per il rientro del/la figlio/a, e la scelta di questo strumento presuppone che l’obiettivo sia raggiungibile. Per questa ragione un progetto di affido ha una durata di due anni, rinnovabili una volta sola. Nonostante ciò, oltre il 40% di questi ragazzi e ragazze sono in affidamento da più di quattro anni, e spesso l’affidamento si protrae a tempo indeterminato fino al raggiungimento della maggiore età. È ciò che viene solitamente chiamato “affido sine die”, ossia senza scadenza.

Nonostante il fenomeno sia molto diffuso, di affido si parla poco, sia a livello di opinione pubblica che all’interno del sistema scolastico.  Questa situazione si ripercuote sui giovani, che si sentono spesso soli o abbandonati ad affrontare la propria situazione. Le esperienze di affidamento sine die sono infatti molto diverse tra loro, e ciò rende difficile trovare soluzioni che mettano i care leavers in condizione di affrontare al meglio il momento del passaggio alla vita autonoma e indipendente.

CarINg ha incontrato Michela Moschetti, ex-care leaver che ha vissuto in affidamento fino ai 21 anni. Michela oggi è fotografa, e durante i suoi studi ha avviato un progetto fotografico a lungo termine, intitolato appunto “Sine Die”, con il quale vuole raccontare i volti, le vite, ma soprattutto le storie di altri ragazzi e ragazze care leavers come lei.

Grazie al suo talento vuole dare la possibilità ai care leavers di incontrarsi e condividere le loro esperienze, contribuendo al contempo a far luce sull’affidamento come fenomeno sociale.

 

L’affidamento dovrebbe essere una misura temporanea, spesso però succede che l’accoglienza al di fuori della propria famiglia sia “sine die”. Quali sono gli effetti principali di questa situazione sui giovani e i/le care leavers?

 Ho vissuto in affidamento dai 10 mesi fino a 21 anni, anche se poi di fatto a 17 anni sono tornata a vivere con la mia mamma biologica e il suo compagno. Quello che però mi ha messo più in difficoltà in tutto questo tempo è stato non aver davanti a me un futuro conosciuto. Non sapere mi faceva sentire in un limbo, in una situazione non del tutto formata. Sapevo che dovevo stare lì; sapevo che era il posto in cui avrei ricevuto le cure di cui avevo bisogno; sapevo che da lì andavo a scuola e dove tornavo per fare i compiti. Sapevo che mia madre aveva dei problemi economici e non poteva tenerci con lei ma non mi rendevo conto bene del perché io non avessi voce in capitolo, del perché io non venissi mai interpellata.

Quello che mi ha fatto più male è stato che nessuno ha chiesto mai a noi, a me e mia sorella, se ci andasse bene questa situazione.

Mi sono trovata ad accettare per forza una sistemazione che però era fonte di disagio: mi confrontavo con i miei compagni di scuola e li vedevo con i loro genitori mentre io non sapevo quasi niente di quello che mia madre faceva, tranne che lavorava e non aveva le possibilità economiche per tenerci.

In generale, posso dire che avrei voluto più chiarezza, più supporto da parte della nostra assistente sociale, con la quale avrei voluto avere più scambi. Non solo, avrei voluto più sincerità, più coinvolgimento. Così forse sia io che mia sorella avremmo affrontato le cose in modo diverso.

Il progetto CarINg indaga in particolare il momento in cui i ragazzi e le ragazze escono dal sistema di tutela. Quali sono state le principali sfide che hai affrontato al momento di costruirti il tuo progetto di vita indipendente?

Le difficoltà che ho riscontrato sono state soprattutto emotive.

Quando ho finito la scuola, sono voluta andare in Irlanda a studiare l’inglese. Ho dovuto affrontare delle spese per i documenti per poter poi fare la ragazza alla pari e in quell’occasione la mia mamma biologica e il suo compagno mi hanno sostenuto, mi hanno aiutata. Poi quando ho voluto comprare una macchina, mio padre affidatario mi ha aiutata e mi ha dato dei consigli.

Però mi è mancata una guida, qualcuno che mi conoscesse profondamente, un adulto che potevo chiamare amico o amica.

Intorno a me sentivo di avere  tutte persone che mi conoscevano poco, che non sapevano cosa io vivessi sotto la superficie di ragazza diligente e studiosa. Nostra mamma non mi conosceva perché non era stata con noi per 17 anni; i nostri genitori affidatari non mi conoscevano perché loro si erano impegnati di più a farci andare a scuola, a darci delle regole, a insegnarci come discernere il giusto dallo sbagliato; ho saputo più tardi che veniva richiesto loro di comportarsi così dalla nostra assistente sociale, non dovevano affezionarsi.  Ma so che hanno sempre fatto del loro meglio comunque e io gli sarò sempre grata.

Quindi fondamentalmente io, le mie scelte le ho prese da sola un po‘ cercando in qua e in là degli esempi. Io non ho voluto, forse volontariamente, prendere per esempio queste persone. Ma vi dico anche non è stato facile, è importante avere persone intorno a te di cui ti fidi e alle quali puoi chiedere consigli.

Nonostante sia un fenomeno diffuso, i ragazzi accolti nel sistema di tutela, con affidamento extra o intra familiare, non hanno occasione di conoscersi tra di loro. Data la tua esperienza, pensi che la possibilità di condivisione avrebbe potuto aiutarti a superare gli ostacoli?

Sì, ho desiderato tutta la vita conoscere persone con cui parlare dell’esperienza dell’affidamento e non le ho mai conosciute. L’unica volta che è successo mi è sembrato tipo un dono. Mi sono resa conto che allora non ero solo io ad aver vissuto questa situazione!

Per tutta la mia vita mi sono sentita sola, sola insieme a mia sorella perché anche lei era in affidamento con me dagli stessi genitori, però per tanti anni, per 30 anni, mi sono sentita un pesce fuor d’acqua. Mi sono sentita una persona che aveva vissuto una situazione strana e tutte le volte che lo raccontavo agli altri mi facevano un sacco di complimenti per come l’avevo superata, però io dentro di me l’ho vissuta male. Sono stata tanto male e ho vissuto tanta solitudine.

Se a 18 anni avessi saputo di un luogo in cui potevo andare, dove potevo condividere, dove potevo anche solo fare un corso di inglese insieme ad altri ragazzi che erano stati in affidamento o in casa-famiglia sarei stata molto più alleggerita da tutta la situazione. Sarebbe stato come incontrare persone con lo stesso zainetto pieno di esperienza come il mio e condividendo ci saremmo alleggeriti a vicenda.

Tra chi ha vissuto in affido, per rimanere nella metafora, c’è chi ha uno zaino più pesante perché ha avuto situazioni più difficili. C’è chi non è potuto neanche tornare dai propri genitori, dalla propria mamma. A 17 o 18 anni siamo molto più fragili e delicati di quanto sembra: vogliamo essere adulti ma non siamo pronti; vogliamo fare le cose a modo nostro, ma non siamo pronti. Però le persone come me, che hanno vissuto esperienze diverse, quando escono dalle case-famiglia o dall’affidamento si sentono troppo sole se non riescono a condividere le proprie esperienze.

A proposito di condivisione delle esperienze, come fotografa ti sei lanciata in un progetto che pone proprio l’accento sulle diversità e le somiglianze tra il vissuto delle persone in affidamento. Come è nato il progetto “Sine Die”?

Il progetto “Sine Die” è nato mentre stavo frequentando una masterclass di progettazione fotografica. Gli insegnanti ci stavano spiegando come si realizza un progetto fotografico dalla A alla Z, come si trovano i contatti, come si costruiscono le storie, come poi si vendono queste storie. Le storie che dovevamo costruire dovevano girare intorno a un unico tema che era quello del “fattore umano”.

Io ne avevo portate 3, poi però mi sono ritrovata accanto a un’ex assistente sociale e ho condiviso con lei la mia storia personale. L’insegnante mi ha sentito e mi ha detto che in effetti quella era a tutti gli effetti “una storia”. Era la mia storia.

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Sine Die – Michela Moschetti

Dentro di me sapevo che era interessante, però non ho mai voluto condividerla perché mi sentivo come una sopravvissuta, mentre dall’esterno la fotografa mi ha convinta che era una storia da condividere. Quindi ho cercato un filo conduttore per il racconto. Partendo dalla mia esperienza mi sono messa a fare delle ricerche e sono capitata su un articolo scritto da Marco Chistolini, uno psicologo di Pistoia, che si è interessato dell’affidamento sine die e ne ha scritto un libro.

Grazie al suo lavoro mi sono resa conto che avevo vissuto un fenomeno sociale, un fenomeno che non coinvolgeva solo me. Così mi sono detta che forse c’erano altri ragazzi e ragazze disponibili che avrebbero voluto parlarne. Facendoli entrare nel mio progetto avrei potuto portare alla luce questo fenomeno.

Il progetto è ancora in fase embrionale, per ora ho raccontato la mia storia, quella di mia sorella, quella di mia cugina e di un’altra ragazza. Ma voglio che sia un progetto a lungo termine, vorrei riuscire a portarlo in altre regioni in Italia e poi chi lo sa anche all’estero.

Attraverso le mie foto vorrei dare la possibilità sia a chi ne vuole parlare di esprimersi e di condividere, sia a chi non conosce di informarsi e, chissà, magari di proporsi per diventare tutore o genitore affidatario. Attirando l’attenzione sull’affidamento, dato che è poco conosciuto al di fuori di chi lo vive, magari potrei contribuire a far cambiare le cose.

Sono convinta che ci sono storie bellissime la fuori, non solo storie difficili, e io vorrei raccontarle tutte.

È possibile raccontare la propria storia e partecipare al progetto scrivendo a: progettosinedie.prato@gmail.com

 

Guarda il video dell’intervsta qui:

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